Moira Ricci

moira ricci
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Un esempio emblematico del suo approccio è il progetto 20.12.53–10.08.04 (2004–2009), nato dopo la perdita prematura della madre. A partire da vecchie fotografie — spesso tratte dall’album di famiglia — l’artista inserisce la propria figura adulta, trasformando ricordi passati in un dialogo visivo con l’assenza, restituendo presenza e continuità a una storia privata. In questo lavoro la memoria diventa elaborazione, nostalgia e insieme una forma di consolazione: Ricci tenta di ricostruire relazioni perdute, offrendo alla propria storia intima un nuovo significato universale.

Negli anni successivi l’artista ha allargato lo sguardo, intrecciando narrazione autobiografica e mito, realtà e invenzione. In progetti come Da buio a buio (2009–2015) e Dove il cielo è più vicino (2014) emerge una riflessione sulla crisi della terra e delle culture contadine, sul declino dei legami con la terra, sull’abbandono dei poderi e sull’esodo verso un futuro incerto. In queste opere la Ricci mischia fotografie, video, registrazioni sonore e immagini trovate per costruire “documentazioni” di storie a metà tra realtà, mito e sogno — come la trasformazione di una mietitrebbia in astronave o la creazione di figure fiabesche come “bambine-cinghiali” o “uomini-sasso”.

Per Ricci, l’immagine non è solo testimonianza: è materia viva da manipolare, attraverso la quale interrogare il tempo, la memoria, l’identità e la loro fragilità. Il suo sguardo è insieme malinconico e visionario, capace di riportare il passato nel presente e di dare nuova vita a storie personali e collettive.

Attraverso la sua arte, Moira Ricci ci invita a riflettere sul valore delle radici, sull’appartenenza, sulla memoria come strumento di consapevolezza e di trasformazione — in un percorso dove il privato diventa universale e la terra, con le sue storie, torna ad abitare l’immaginario contemporaneo.

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Vivian Maier

vivian maier

Vivian Dorothea Maier nasce il primo febbraio 1926 a New York, nel Bronx, da madre francese e padre di origine austriaca. Dopo la separazione dei genitori, è affidata alla madre, che si trasferisce presso un’amica francese, Jeanne Bertrand, fotografa professionista. Vivian vive in Francia fino al 1938, data in cui ritorna a New York dove inizia la sua vita di governante e bambinaia, prima presso una famiglia a Southampton, poi, nel 1956, a Chicago. Muore il 21 aprile 2009 in gravi ristrettezze economiche e senza che nessuno conosca le sue oltre centomila fotografie.

vivian maier
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Tata di mestiere, fotografa per vocazione, Vivian Maier non abbandona mai la macchina fotografica, ritraendo con la sua Rolleiflex la vita che scorre davanti ai suoi occhi per le strade delle città dove vive – New York e Chicago – con i bambini, gli anziani, la varia umanità che incontra in un momento storico di grandi cambiamenti sociali e culturali. Uno sguardo curioso, attratto da piccoli dettagli, particolari, imperfezioni, immagini potenti, di folgorante bellezza, che sono rimaste a lungo sconosciute, rivelando questa grande fotografa solamente nel 2007, quando un agente immobiliare, John Maloof, acquista durante un’asta parte dell’archivio della Maier, confiscato per un mancato pagamento, intuendo subito di aver trovato un tesoro prezioso. Da quel momento Maloof non smette più di cercare materiale della misteriosa fotografa, arrivando ad archiviare oltre 150.000 negativi e 3.000 stampe.

Anche Roma ha ora il privilegio di poterne ammirare le immagini al Museo di Roma in Trastevere dove è in corso, fino al 18 giugno 2017, l’attesissima mostra retrospettiva Vivian Maier. Una fotografa ritrovata che ne ricostruisce il lavoro fotografico con 120 fotografie in bianco e nero realizzate tra gli anni Cinquanta e Sessanta insieme a una selezione di immagini a colori scattate negli anni Settanta e alcuni filmati in super 8 che mostrano la tecnica messa in atto per avvicinare i propri soggetti.

La mostra presenta al pubblico l’enigma di un’artista che in vita ha realizzato un enorme numero di immagini senza mai mostrarle a nessuno, tentando di conservarle come il bene più prezioso. La Maier sembrava fotografare solo per se stessa visto che le sue immagini non sono state mai esposte né pubblicate durante la sua vita e la maggior parte dei suoi rullini non sono stati sviluppati. Tuttavia, osservando il suo corpus fotografico si nota la presenza di numerosi autoritratti, quasi un possibile lascito nei confronti di un pubblico con cui non ha mai voluto o potuto avere a che fare. Il suo sguardo austero, riflesso nelle vetrine, nelle pozzanghere, la sua lunga ombra che incombe sul soggetto della fotografia diventano così un tramite per avvicinarsi a questa misteriosa fotografa. Come scrive Marvin Heiferman “Seppur scattate decenni or sono, le fotografie di Vivian Maier hanno molto da dire sul nostro presente. E in maniera profonda e inaspettata… Maier si dedicò alla fotografia anima e corpo, la praticò con disciplina e usò questo linguaggio per dare struttura e senso alla propria vita conservando però gelosamente le immagini che realizzava senza parlarne, condividerle o utilizzarle per comunicare con il prossimo. Proprio come Maier, noi oggi non stiamo semplicemente esplorando il nostro rapporto col produrre immagini ma, attraverso la fotografia, definiamo noi stessi”.

Cristina Núñez

L’autoritratto come forma di autoterapia

Non solo autocelebrazione. L’autoritratto si trasforma oggi in un potente strumento auto-terapeutico, in grado di oggettificare le emozioni più disparate e dolorose per decifrarle, comprenderle e, infine, accoglierle in una più consapevole e ampia percezione di sé. Proprio da questi principi è partita Cristina Nuñez (Figueres, 1962),  l’artista e fotografa che nel 1988, dopo il superamento di un’adolescenza segnata dalla tossicodipendenza, ha avviato un progetto di terapia self-made attraverso la realizzazione di autoritratti finalizzati a esorcizzare i traumi del passato e a trovare senso nello stigma che portava con sé dalla gioventù. Nel 2004 Cristina ha convertito l’auto-terapia in una missione aperta al mondo intero ideando The Self-Portrait Experience (SPEX), il metodo artistico-terapeutico basato sulla realizzazione di autoritratti che ha come obiettivo alla comprensione di sé e all’affermazione delle proprie potenzialità attraverso l’esplorazione dell’inconscio. Da vent’anni Cristina organizza workshop in carceri, centri di salute mentale, centri di riabilitazione, accademie d’arte, scuole e musei, per facilitare l’avvio di un processo di autocoscienza individuale e collettivo che permette di affermare la propria esistenza al di fuori del dolore o insieme al dolore stesso. 

L’autoscatto secondo Cristina Nuñez

Una tecnica che trova le sue origini in tempi non sospetti: con l’autoscatto, come spiega Cristina Nuñez citando Lacan, si ripropone una dinamica che ha origine durante l’infanzia, quando il bambino inizia a riconoscere la propria immagine davanti allo specchio. In questo momento si avvia un processo di rielaborazione del modo di concepire se stessi come individui, che implica uno sforzo di comprensione profonda e di indagine all’interno della propria essenza. Durante la creazione di un autoritratto l’unicità dell’io viene meno, perché si diventa allo stesso tempo creatori, soggetti, spettatori dell’opera: l’incontro fra queste tre anime scatena il processo creativo.

cristina nunez
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